Devi aver sofferto molto.


All'occupazione di Discipline Umanistiche incontrai Daria: bella come la morte che segna di rapina; come un lampo in notturna; come un sabato adolescenziale e forse il tuo rossetto. Con la sua apparizione nel caos ideologico delle ventitré, caddero rovinosamente ai miei piedi una serie di storie assurde fatte di romanticherie di seconda mano, di pizze consumate a metà e di Marco imbottito di chemioterapici che partì per mondi lontani con una tipa stesa di fianco al suo letto: una ragazza che non apriva quasi mai gli occhi e quando lo faceva veniva giù il finimondo e la Primavera (o qualcosa del genere). Tuonò selvaggia un mucchio di altre storie sconnesse dall'alcool e di importanza relativa, quando mi chiese cosa studiassi e cosa facessi lì. Filosofia, risposi. Quando mi domandò del mito della caverna (ed io le dissi subito che si trattava più precisamente di un'allegoria), le spiegai che quegli uomini legati, nell'atto di contemplare i rapporti di forza tra le ombre proiettate nel fondo della caverna, più credevano a ciò che vedevano più si allontanavano dalla Verità. Più comprendevano il senso di quelle ombre, più dimenticavano la nostalgia di una luce primordiale e di tutto ciò che si celava dietro le loro spalle (ovvero una realtà lontana dagli spritz ad un euro, lontana dal vino dei pakistani venduto dal Collettivo Autonomo e dai sabato sera piovosi). «La Nostalgia è forse il motore del nostro trascinarci» - tagliai corto senza troppa voglia di rimanere tra quelle rivendicazioni sociali, nel bel mezzo di una pretesa di spazi in autogestione. «Ho ventiquattro anni ma sono un vecchio reazionario» - dissi ridendo mal celando una certa convinzione. «Allora devi aver sofferto molto» - mi disse.

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