Altro-da-te (Storia minima di una resa col proiettile).

Chiusero tre chiavistelli a chiave quando varcai la linea gialla sbarrandomi una porta alle mie spalle: “Da qui in poi lei prosegue da solo”. Voltandomi un momento mi resi conto di non poter tornare più indietro. La maniglia era bloccata. L'uomo col camice bianco e le chiavi si stava allontanando a grandi passi. Non ci fu diritto di replica. D'ora in avanti potevo solo proseguire. Il corridoio era largo e parabolico quel tanto che bastava da non riuscire a scorgere distintamente la fine. Sulla sinistra delle porte in ferro e degli occhielli da cui tiepidamente balzava fuori della luce diffusa. Un paio di metri e sulla destra appare un cartello che prima non c'era, recita:

        L'Altro-da-te.

Sembra il nome di questo luogo: Altro-da-te. Gli abitanti di quelle gabbie da cui, pudica, veniva fuori poca luce, iniziarono a gridare sentendo i miei passi rumoreggiare nel corridoio. Io non sapevo chi o che cosa fossero, fissavo gelato nelle vene quel coro infernale di suoni che formavano un unico grande corpo, un muro ideale che mi inchiodava sui miei passi. Non riuscivo a proseguire: “Chi è recluso in questo luogo mostruoso..” - mi attardai a pensare scioccato. Volevo tornare indietro come un codardo, non avevo il coraggio né di vedere né di sentire come chi conosce l'Apocalisse e ne attende gli orrori. Per andare via dovevo proseguire. Era una Via Crucis necessaria. Alle mie spalle l'oblio. Dinanzi a me: tutto Dolore.
Mossi i miei passi verso la cella che dallo spioncino emetteva una luce più abbagliante delle altre. La pupilla ora si stava completamente dilatando, il battito instabile bussava sulla gabbia toracica per uscire, reazionario. Non c'era tempo da perdere. Dovevo andarmene ma la curiosità mi spingeva anche a voler sapere cosa stesse accadendo in questo posto dimenticato. Guardai dentro la porta che ai miei occhi emetteva più luce delle altre e lo stupore fu tale da non poter essere raccontato con queste poche stupide parole. Un leone era rinchiuso nella prima cella d'isolamento. Le pareti in gomma dura erano completamente divelte e segnate da fiotti di sangue. Anche il soffitto era segnato. Gli arti della bestia erano sfregiati nel tentativo di fuggire da quella condizione misera e la criniera non era il semplice segno di Potenza proprio di quell'eroico animale, essa era una corona di fiamme e s'avvolgeva nel corpo per tenere viva anche una fiammella in coda a quell'onirico ed imponente animale rampante. Alla mia vista, sgranò gli occhi e si getto in una carica furiosa verso la porta e vi sbatté più e più volte con tutto il suo peso, come fosse un enorme treno in corsa. Io caddi a terra stordito dal suono sordo e non so quanto vi rimasi, finché mi rialzai e notai che la porta era perfettamente integra, senza nemmeno un segno, forgiata nel sudore di mille sofferenze. L'animale era ancora lì, ferito, ma indomito. Era lì fermo a fissarmi senza piegare nemmeno un arto dolorante come il combattente che muore con onore guardando il sole. Io non so dove trovai l'impeto di rivolgermi a lui:
- “Chi ti ha recluso in questa condizione di miseria, in questo ignobile isolamento, tu che delle terre selvagge sei il re indiscusso?” - balbettai.
Lui ringhiò ancora una volta tentando l'ennesima strenua difesa, vibrante, ma senza muoversi, come a voler dimostrare nell'ultimo disperato tentativo, la sua natura predominante, di comando, il suo esser eroico almeno nel cuore. I miei timpani quasi esplosero ascoltando a me diretto un grido così amaro e vendicativo, un ruggito che sembrava raccontare l'odio fiammeggiante dell'Inferno. Era un comandante in gabbia e le ultime gesta di un condannato a morte, sono quasi sempre dichiarazioni, quindi così rispose pieno di rancore:
- “Io non sono ciò che vedi. Il mio corpo di Leone rampante avvolto da queste fiamme splendenti è solo la forma misera di questo mio spirito Eroico. Io fui colui che, implacabile, succedette allo spirito ignobile e senza dignità del Cammello.. Un inutile animale da soma! Su e giù nelle peggiori lande desolate dove non c'è acqua né cibo da cacciare. Dove l'uomo fatica a sopravvivere. Lui, uno spirito della peggior specie, si chiede: 'Che cosa è Gravoso?' - e carica sulle sue spalle tutto ciò che riesce piegando le ginocchia, inchino dopo inchino. Il Cammello è perennemente schiavo. Quando fu però nelle terre dove la linea del deserto si confonde e danza con l'orizzonte e le sue nuvole, lui ebbe, un giorno, la dignità di andare oltre la sua stessa natura. Uno spirito così insignificante si trasformò in questa bestia enorme che vedi qui richiusa senza speranza e che sta morendo lentamente. Giunse però la sua ultima battaglia prima di diventare me. Uno spirito così forte si deve conquistare. In questa distesa immensa, mentre lo spirito del cammello diventava ciò che io sono ora, si trovò faccia a faccia contro questo enorme rettile aureo e lucente: un orripilante rettile strisciante, a squame che si proiettò, come chi ha alle spalle un potere millenario ed invincibile, ed offese lo Spirito, vibrando: 'Tu devi!' - e questa sciagura terrorizzò tutte le sabbie del deserto. 'I valori sono già stati dati, tutti i pesi già distribuiti!' - si affrettava a ricordare il viscido rettile. Ma il cammello, che stava già diventando la Bellezza di questo corpo, non era più disposto ad ascoltare e a chiamare 'Signore', o a nominarlo di nuovo 'Dio', così disse: 'Io voglio!' - e il rettile menzognero morì schiacciato e la sua sciagura fu cancellata per sempre. Lo Spirito che a forma era stato un cammello, ora stava mutando consistenza. I deboli e lunghi arti che sorreggevano quel corpo da soma, ora stavano diventando più massicci ed in grado di difendersi acquisendo artigli che sembravano non potessero conoscere il taglio di nessuna spada, scomparvero quelle orribili ed insignificanti gobbe che per secoli hanno rappresentato solo l'abnegazione, per lasciar spazio a queste fiamme purissime che anche tu vedi con i tuoi occhi e che non sono allucinazioni, ma la mia Potenza e la speranza per l'umanità intera. Io sono la forza per i nuovi valori. Sono l'orrore dei rettili e dei draghi, di quella stirpe millenarie e menzognera da cancellare per sempre. Io sono l'invincibile in grado di fare spazio alla formulazione di nuovi ideali, ma sono stato qui rinchiuso ed ora non posso mutare nella mia ultima e purissima trasformazione, e salvare il mondo. Sono qui bloccato da lune e lune, ormai ho perso il conto. Ora attendo solo che giunga la mia fine, senza speranza. Sapevano che avrei potuto dare gioia all'umanità per sempre, annunziando una nuova rinascita. Avremmo amato ciò che il fato ha riserbato per tutti noi, finalmente liberi dalle catene e dagli obblighi morali degli ideali prestabiliti. Mi hanno bloccato qui mentre fuori, ora che siamo qui a piangerci addosso, vanno in rovina tutte le cose. Io non ricordo quando accadde o in quanti vennero a cercarmi con quelle catene d'ipocrisia, di vendetta e di reazione. Io, così maestoso e possente, pieno di vigore e di Potenza, non seppi difendermi. Ma è inutile che indugi sui dettagli infami di questa reclusione. Fuggite. Ora non avete più molto tempo.” - Così il Leone disse, e si accasciò in terra, stanco della sua stessa storia e della mia vista.
Fui preso da sgomento e mi lasciai cadere in terra davanti quella porta inchiodata per sempre. Senza una maniglia, senza uno spigolo su cui appigliarsi per cercare di spalancarla. Convulsamente provai ad alzarmi, caddi sulla destra e mi ripresi grazie alla parete, poi di nuovo una vertigine mi proiettò verso sinistra ed ancora in avanti.
Spalancai di colpo gli occhi. Fissavo in terra la trama dei coppi del mio appartamento. Io non so cosa accadde quel giorno, forse avevo urtato contro qualcosa con così tanta forza da perdere i sensi. Ero sconvolto e stordito. Tutte le mie sicurezze sul mondo caddero in frantumi e tentai di ricomporle ma dopo quella visione orribile, i pezzi schizzavano via in tutte le direzioni non appena tentavo di inchiodarli al loro posto, vero o presunto. Non avevo più niente. Io chi 'Sono'? Cosa è 'Cielo'? Cosa è 'Stella'? Ero vuoto di ogni cosa e sconfitto, al punto che mi sarei fatto terra per tumularmi e nascondermi o vento per scappare ovunque senza il bisogno di un 'perché'. Mi tirai su e la spossatezza, prima leggera, si acuì di colpo lasciandomi un dolore e mezzo tremore. Tirai fuori dall'armadio la Walther P38, misi in canna un colpo e mi trapassai il petto caldo e fragile come il migliore dei codardi. Sentii il foro di entrata, quello di uscita a malapena o forse già lo sognai. Un ardore degno forse la metà di quell'animale mitico e morente in una dimensione solo ideale, ma non per questo meno significativa, dell'Esistenza.
E poi fu con un colpo notte (ma soprattutto Desistenza).

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