E non rimane che un’ombra e un pianto
Cecilia, in quel luogo nel quale non era nata,
udiva la lontananza degli alberi e il loro tremolio causato dalla
tramontana. Quello che penetrava da quelle spesse pareti nascoste tra
le fronde, era un timido sibilo, ciò che rimaneva di un’incessante
frusciare che gli antichi uomini credevano fosse la collera degli dèi
o la paterna manifestazione dello spirito degli avi. Il vento
imponeva pose innaturali agli alberi, dando vita ad una straniante e
ripetitiva melodia.
Quando Cecilia chiuse gli occhi, entrando in quel
mondo onirico nel quale diveniva vulnerabile ai tumulti della propria
coscienza, sognò di una piccola stazione del nord, sulla quale
presto iniziò a cadere abbondante la neve. La bianca coltre ovattò
quel luogo dal sinistro aspetto greve, rendendo ancora più
spettacolare - e vagamente ottocentesco - il comparire di un treno
annunciato dallo scintillio innaturale dei neon (eco artificiale di
un tramonto ormai trascorso).
Il mezzo si fermò, lasciando scendere alcuni
passeggeri. Ripartì stancamente accompagnato dal turbinio notturno
delle luci. La neve riproduceva i riflessi del mezzo, simili a
prolungati lampi elettrici. Turbinavano e si disperdevano, danzando
come decadenti stelle di un balletto classico. Fuggì via come un
grande serpente metallico.
I viaggiatori si dispersero lungo la banchina.
Cecilia cercava di guardare tra la folla, districando con gli occhi
quelle traiettorie imprevedibili e prive di senso che i passi
magicamente producevano. Credeva che tra quella folla potesse prima o
poi spuntare fuori, tradendo la promessa fatta a sé stessa di
impegnarsi a non rivederlo mai più. Cecilia stentava ad andarsene da quel posto. Non voleva voltarsi o guardare altrove.
Le sue gambe sembravano paralizzate e in attesa di un sacro incontro; tradivano, di fatto, la sua volontà. Ora le tornavano in mente quelle lunghe notti e, nell'inconsapevolezza del sogno, era sicura che non
potesse essere in altro luogo che lì: la dimensione inconscia non si
sarebbe lasciata addomesticare. Il sonno era il luogo e
l’ora migliore per una battuta di caccia dove la vittima era, in
primo luogo, il suo stesso carnefice. Voleva che fosse lì, che
comparisse tra la folla.
Un attimo prima che i volti di quei viaggiatori assumessero delle fattezze familiari, Cecilia prima credette di vederlo
arrivare, poi si ritrovò di colpo nel suo letto adagiato ai piedi
del grande fiume. Si risvegliò gettando istintivamente uno sguardo
verso la finestra. Poté ammirare il buio terso dei cieli autunnali.
Scrollandosi di dosso il disagio, si voltò lasciandosi scaldare dal
naturale torpore di un sogno inatteso.
Pensando a sé stessa, al netto rifiuto dei
ricordi di quel tempo rubato, si lasciò sfuggire una serie di
pensieri lungamente rifiutati. Ora pensava che avrebbe voluto almeno
vederlo in quella stazione immaginaria nel tempo del sogno. Ma, in
fondo, cosa avrebbe poi visto seriamente? Solo la proiezione di
un’ombra, un ricordo fragile. Le foglie degli alberi, quando i
tempi sono maturi, cadono e così fanno i ricordi. E non rimane che
un’ombra e un pianto; l'eco di ciò che prima era qualcosa ed ora più nulla.
“Ho capito dove sono nascosti tutti i miei desideri” - pensò.
“Ho capito dove sono nascosti tutti i miei desideri” - pensò.
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