Cronistoria breve di un viaggio in notturna.

Esco di casa che già è l'una di notte e tra un'ora e mezza dovrò trovarmi in Stazione Centrale ad aspettare un treno che forse non arriverà mai, a sorbirmi il freddo bolognese che, quando vuole, sa come farti male. Ho fatto bene a mettere gli stivali, la città è già vagamente bianca con gli alberi della Cirenaica spogli ed affamati, con i gatti che non danzano più sui tetti, con i miei piedi infreddoliti a causa dei calzini sempre troppo corti. Cantavano walking on sunshine i Katrina and the Waves nell'83. 'Seh magari' - pensavo. Due borsoni che portavo a spalla mi facevano compagnia ed ogni tanto cambiavo braccio per non sentire il dolore.
A Sant'Egidio incontro quattro ragazze completamente ubriache che si rotolavano nella neve già gelata, una situazione paradossale in qualsiasi parte dell'Universo conosciuto, ma non a Bologna ed ancor meno a San Donato. Finalmente arrivo distrutto sul viale e mi fermo alla fermata del circolare, che arriverò in anticipo ma almeno non perdo l'uso delle braccia e delle spalle... manco trasportassi un cadavere! Gli orari infausti non mi permettono di aspettare l'arrivo del bus - cazzo! - decido di farmela a piedi. Di colpo accosta un camion verso Porta Mascarella, scende al volo una donna in stivali bianchi e gonna inguinale (e torniamo all'83: I feel the love,I feel the love, I feel the love that's really real!) che ha appena finito di lavorare... mi guardo nel portafoglio e mi bastano appena i soldi per chiederle...(no, non la marchetta)... se ha il numero del taxi. Scuote la testa e torna a lavoro, da stakanovista di mezza età, ottimista e di sinistra. Verso Via Stalingrado e il suo ponte orrendo, mi colpisce una scritta su una colonna: "morte ai calvi" - e mi sento in un certo qual modo discriminato. Tranne qualche incontro sconclusionato da post-serata non propriamente sobrio, c'è da segnalare solo l'odore nauseabondo e notturno del Mc Donald's della stazione... in produzione forzata 24 ore su 24.
Arrivo nella banchina sul primo binario e mi fiondo sugli orari: per l'Espresso da Torino non c'è il binario sul display e nemmeno l'ombra di un addetto per togliermi il dubbio. Due no, ma una palla me la gioco che il treno è soppresso e mi tocca rifarmi tutto il cammino a ritroso, e quindi: neve, gelo, "morte ai calvi", puttana senza numero del taxi, fermata del bus inutilmente vuota e, forse, ragazze che a quest'ora o sono a casa o sono ibernate. Di colpo compare la scritta 10' di ritardo, poi scompare quasi subito. I misteri della tecnologia. Aspetto una quarantina di minuti e annunciano il treno in arrivo al binario 10. Mi sbrigo nel tunnel tra sacchi a pelo in terra dove dormono i residuati bellici del neoliberismo, quell'idea intelligente dei pochi che contano e dei tanti che corrono. Salgo al binario 10, annunciano il cambio al binario 11. Mi sposto nuovamente. Lento ed inesorabile dopo qulche minuto arriva il treno, salgo a bordo e cerco il mio posto (carrozza 06, posto 101) che, per l'occasione, è occupato da una signora con annesso bimbo in braccio. Da quando viaggio, su quello che dovrebbe essere il mio posto, c'è SEMPRE una signora con il bambino in braccio, sempre. Una specie di complotto.
Mi accomodo fuori allora, sedendomi sul borsone e tirando fuori un libro come alibi. Il treno parte ed inizia a cullarci, premuroso si preoccupa per noi come in quel libro di Dostoevskij. Intanto butto fuori lo sguardo e lo lascio vagare in una pianura irreale, tra i capannoni dimessi, tra le coperture in eternit, gli hotel tre stelle e le case cantoniere.
"Sarà un viaggio lungo e scomodo" - mi dico.

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