Quella volta che imparai a mentire.

Ricordo distintamente la prima volta che mentì, o almeno ricordo quando lo feci la prima volta con cognizione di causa. In quella periferia sbiadita dove ho calciato il pallone e i calcinacci del capannone. Quello stesso capannone dove c'era scritto Viva Gaetano Bresci!, quello stesso capannone pieno di graffiti e dove era parcheggiata una Fiat Cinquecento abbandonata che noi avevamo fatto nostra come un segreto. Cercavamo di avviarla senza sapere dove mettere le mani, alla peggio tre spingevano ed uno la portava a spasso per qualche metro tra l'ombra di quelle colonne che ci proteggevano dalle siringhe usate e dai frammenti di vetro. L'auto, con la spinta sostenuta di qualche scalmanato di quartiere, iniziava a muoversi ad un ritmo sostenuto per dei ragazzini e chi era al volante si sentiva come se guidasse sull'anello del circuito di Indianapolis, il grande rettilineo. L'emozione era la stessa ma spensierata, in un certo senso ironica.
Ora, c'era questa ragazzina che qualsiasi età avesse se la trascinava male, annoiata. Cercava di averne molti di più. Aveva una sorella di un paio d'anni più grande che accendeva le fantasie sessuali di molti di noi. Con lei condivideva il taglio dei capelli con la riga in mezzo e le lentiggini sul viso. Ricordo i jeans strappati, qualche taglio sulle braccia ed un broncio continuo, insistente. Io con queste due ragazze non parlavo mai, non sapevo né cosa dire né come avvicinarmi. Preferivo continuare a piegare la lamiera delle serrande col pallone di pelle scucita se mi andava bene o, alla peggio, col Supertele eterna garanzia. Una sera quando il Sole aveva smesso di controllarci già da un po', mi si avvicinò guardinga, pensierosa. Io ero preoccupato di questo contatto nuovo. Per darsi un tono notai che fumava a grandi bocconi, poi ruppe il silenzio: “Va a chiamare mia sorella, è da mio padre infondo la strada.. ma non dire a nessuno che stavo fumando”. Quegli occhi freddi, neri come le penne dei corvi sopra i cimiteri di Poe, mi turbarono. Ora c'era un noi. Mi sentivo complice. Ero legato a tradimento ad un segreto che al mio stomaco risultava orrendo, indigeribile ed ingestibile. Un'intimità che io non avevo chiesto e che mi era piombata addosso a colpi di due occhi scuri e lucenti vicino ad una pelle bianchissima, quasi cadaverica. Le parole, fredde ed istantanee pronunciate da lei mi disarmarono. Fumava e solo io avevo il privilegio di saperlo. Mi chiedeva omertà. In trappola, ero in trappola. Ricordo il mio cuore giovane, palpitante, mentre mi dirigevo verso la sorella e dinanzi al padre. Non potevo fare altrimenti, assecondare e recitare. Mentire. A occhi bassi tutto filò liscio e nessuno si accorse di nulla. Io tenni, sofferente, quel segreto stupido che mi sembrava orribile. In un certo senso fu un preludio alla vita. Se non la prova generale, almeno un buon riscaldamento.
Quel capannone dove giocavamo nascosti o facevamo a pugni è stato abbattuto per lasciare spazio ad un parcheggio abusivo. Gaetano Bresci è caduto, conseguentemente, sotto i colpi ignobilmente reazionari della giunta comunale. La Cinquecento non c'è più, forse rottamata o rubata (e non da noi). Passando all'appello, uno dei nostri fa il cuoco; l'altro il tossico figlio di papà un po' annoiato; quell'altro ancora è al riformatorio per un paio di cazzate di troppo; il biondino si è calmato con gli anni dopo una giovinezza da non morire mai. Lei invece più rivista, ma penso stia bene. Della sorella, scheletrica e quasi dimenticata, ho una vaga immagine persa tra ricordi inutili che emettono però un candore quasi celestiale. Del padre, a cui mentì spudoratamente sui vizi della figlia, conservo ancora, come ricordo, il senso di colpa bambino che provai ed un suo sorriso che catturai solo di sfuggita, un sorriso placido, paterno. Lui sul registro delle presenze è l'unico a risultare assente. Assente ma giustificato a causa di un cancro allo stomaco che non ne voleva proprio sapere di cambiare aria; partito in vacanza anticipata prima di un'Estate ipotetica e volgarmente provinciale ...
in vacanza forzata, ostinata e drammatica verso chissàdove.

Commenti

  1. Ricordi lontani di un'infanzia in cui si giocava alla spartana. Ricordo come si giocava da noi, in mezzo alla strada, con i vestiti quelli rotti, le scarpe scollate ed era un divertirsi continuo. C'erano attimi stupendi. Ora invece giocano ai videogiochi da quando hanno 4 anni, è un furto all'immaginazione, al vero gioco, alle piccole cose che si fanno da piccoli che sembrano gigantesche a quel tempo.

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    1. I videogiochi dovrebbero essere fruibili sono da una certa età in poi perché nel videoludico ti appropri di una fantasia che ha coltivato un'altra persona che sa sognare e che ha tramutato in realtà il dato immaginativo. Il bambino lo prende passivamente, non esercita, non crea con il pensiero.. che è la cosa che contraddistingue il bambino, in genere da un adulto. L'adulto che mantiene questa facoltà è quasi sempre un genio - ma i casi sono rarissimi. È Nietzsche, Wagner, Majakovksij, Einstein, il suddetto Gaetano Bresci, Mishima, ma anche Zeman, o un Pantani per dirti.. e potrei andare avanti all'infinito. Tutta gente che sicuramente ha giocato per strada quando era più piccola e che ha continuato a farlo in età adulta.
      G.

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  2. Nobile arte. Imparerai, ti servirà.
    D.

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  3. I sensi di colpa sono x le vite che non avete imboccato, x tutte le strade non prese o per tutte quelle prese. Per i bivi e gli stop obbligati o per i viaggi lunghi senza fermate. Una piccola bugia di bimbo è solo un pò di verità distorta. Mi piace tantissimo leggere le tue storie

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    1. Ti ringrazio, è sempre un piacere ricevere i tuoi commenti!
      G.

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